Mettiti nei miei panni!

Quante volte vi è capitato nella vita di dire o sentir dire: “non mi capisce”, “mi sento invisibile”, “mi sento giudicato”, “mi arrabbio quando fa così”, “mi sento deluso e triste”, “manca la comunicazione, io dico A e lui/lei capisce B e viceversa” …

 

Che succede in realtà?

 

Perché nella nostra esperienza sono rare o addirittura assenti le situazioni in cui qualcuno riesce a “mettersi nei nostri panni”?

 

La nostra personalità è composta da diversi fattori: una parte biologica, un elemento psicologico-sociale (che riguarda il nostro ambiente familiare, sociale e culturale) e una componente plasmata dagli eventi della vita, che possono rivelarsi favorevoli e/o sfavorevoli.

 

Il nostro primo ambiente, quello familiare, è particolarmente significativo per il nostro sviluppo. Esso ci dà l’imprinting, ovvero la prima esperienza di comunicazione, basata sui nostri bisogni e desideri. Se la comunicazione implicita e quella esplicita tra il bambino/ragazzo e il caregiver avviene in modo soddisfacente, si crea una “sintonizzazione” tra loro, sia a livello emotivo che cognitivo. Il piccolo acquisisce, grazie a questa interazione, l’abilità di capire gli altri ed essere capito e crea un nesso di significati che gli permette di costruire il proprio senso del sé, del mondo e della vita. Questo scambio reciproco viene detto “mentalizzazione”, e il frutto della mentalizzazione è la capacità “metacognitiva”: poter costruire, tramite la riflessione, i nessi significativi di una possibile interpretazione degli eventi.

 

La scuola o l’interazione con l’ambiente sociale esterno alla famiglia a volte ci rende più vulnerabili. Quante volte capita di andare a casa di un amico e rendersi conto che l’ambiente familiare è diverso dal proprio? A volte, se ci piace una cosa, vorremmo adottarla anche a casa nostra o, se succede il contrario, cerchiamo di tenerla più lontana possibile, esprimendone un giudizio tendenzialmente negativo.

 

Dunque, se il processo di mentalizzazione non avviene in modo adeguato già dal primo ambiente, si possono sviluppare delle “incomprensioni”. Il diverso genera rabbia, paura e chiusura e la persona adotta un modo rigido di vivere e di porsi in relazione con gli altri. Manca il senso della misura equilibrata e così il soggetto resta privo dell’opportunità di sentire un’opinione diversa dalla propria ed abbracciare, se il caso, un punto di vista fino ad allora ignoto e/o diverso dal proprio.

 

Risulta pertanto opportuno acquisire una adeguata flessibilità nella vita, senza per forza ferire la sensibilità dell’altro o ferirsi. Essa ci renderebbe più resilienti e liberi e ci permetterebbe di vivere meglio con noi stessi e con gli altri.

 

Invece di essere schiavi della nostra impulsività, paura e rabbia, si potrebbe sperimentare come primo passo, la possibilità di stare un pochino fermi, evitando il nostro modo abitudinario di reagire, e sentire senza giudicare il punto di vista del prossimo. Provare a volte a mettersi nei panni degli altri, sbagliarsi e chiedere scusa se necessario, non danneggia. In tal modo, due persone con opinioni diverse non creano necessariamente ostilità, ma apertura. 

 

In diversi casi, questo produrrà un arricchimento per entrambi!

 

 

 

 

 

Per approfondimenti:

  1. Fonagy P., Gergeley G., Jurist E.L., Target M., Affect Regulation, Mentalization, and the Development of the Self, New York 2002.

 

 



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